Questo vaso, perfettamente conservato, è realizzato in argilla marnosa (probabilmente tipo K5) ed è stato rinvenuto durante la campagna di scavo condotta da Ernesto Schiaparelli a Giza nel 1903. Si tratta di un recipiente a corpo ovoide con spalla arrotondata, collo cilindrico e orlo a sezione rettangolare. Il collo è decorato con un anello modellato in rilievo, mentre il fondo è costituito da una base cilindrica concava. Caratteristica distintiva di questo esemplare sono due piccole anse applicate sulla spalla, elemento raro per questo tipo di contenitori.
La superficie esterna presenta una copertura biancastra (engobbio o ingobbio), mentre l’interno è rivestito da uno strato scuro e brillante, probabilmente residuo organico di oli o resine. Sono inoltre visibili tracce nere lungo la parte superiore del vaso, dal collo fino a circa un terzo del corpo, interpretate come residui della sostanza originariamente contenuta – probabilmente un unguento usato durante la mummificazione.
Un’iscrizione in ieratico è presente nella parte superiore del corpo del vaso. Essa recita: “L’olio per unire la testa e il volto di Djedhor.” Il nome proprio (Ḏd-ḥr, greco Tachos) è scritto in demotico, prassi inusuale in un contesto rituale.
L’esame tipologico e paleografico (confronto con il papiro Rylands IX, datato all’anno 9 di Dario I, 513 a.C.) consente di collocare il vaso nel V secolo a.C., durante il Primo Periodo Persiano (XXVII dinastia, 525–402 a.C.). La tipologia corrisponde a contenitori rinvenuti nelle cosiddette “cache di imbalsamazione” del tipo B2, documentate a Saqqara.